In questa intervista alla sociolinguista Vera Gheno, abbiamo avuto il piacere di indagare come i social media abbiano influenzato non solo la nostra lingua ma anche il nostro modo di comunicare. Dobbiamo riappropriarci dell’italiano e delle moltissime parole che lo compongono perché esse stesse sono il centro del nostro essere umani.
Vera Gheno tu sei una sociolinguista. Come e da dove nasce questo amore per la lingua?
È una questione di famiglia – mio padre è un bravissimo filologo ugrofinnico – e di istinto. In realtà, più che la lingua in sé, a me interessano le correlazioni tra una lingua e i suoi parlanti. La lingua, insomma, è in qualche modo solo un pretesto per occuparmi delle persone e delle loro competenze e nevrosi. Del resto, siccome una lingua è fatta dai suoi, questa relazione non è casuale, ma anzi, estremamente importante, e forse troppo spesso sottovalutata. Ci si concentra sulla lingua senza considerare quanto siano importanti, per la sua “salute”, le valutazioni sui suoi parlanti.
In particolare, tu ti sei specializzata nella comunicazione mediata da computer, cosa ti ha portato a questa scelta?
Sotto sotto sono una nerd. Prima di iscrivermi a Lettere, ho studiato alla facoltà di Ingegneria per due anni – beninteso, con esiti da dimenticare; ma mi piacciono le scienze “dure”, mi piacciono la matematica, la geometria analitica, la trigonometria… Frequentando Ingegneria, da semplice gamer sono diventata più tecnica e tecnologica: ho lavorato in un negozio di computer dove aiutavo a smontare e rimontare PC, e da allora mi è rimasto un sincero amore per la tecnologia. Unire l’amore per la lingua e quello per i computer, dunque, è stato quasi naturale.
Come pensi che i social network abbiamo modificato la nostra lingua? Perché molti li vedono in maniera negativa?
Hanno aperto nuove vie di comunicazione, e in questo senso hanno sicuramente influito sulla lingua, in particolare sul suo uso. Ma questo non è per forza negativo. Penso che i social, che per molti “senior” sono territorio alieno, spesso siano visti in maniera eccessivamente negativa perché non sono ben conosciuti. Tendenzialmente, dopo una certa età si tende a odiare ciò che non si capisce a fondo. Io, da “dinosauro” dei social quale sono, credo che tutto dipenda invece da come li usiamo, questi mezzi. In fondo, la rete contiene ciò che ci mettiamo noi, quindi possiamo influire tantissimo sulla sua qualità.
Siamo in un’epoca in cui tutti pensano di poter dire quello che vogliono, in cui prolificano i cosiddetti leoni da tastiera, e si leggono commenti o post di puro “odio” che tendono a sminuire o ad offendere l’altra persona. Soprattutto tra i più giovani, a volte, le conseguenze possono essere davvero terribili. Come ti spieghi questo fenomeno e quale pensi sia il metodo migliore di difesa da chi ci blasta?
La rete ha fornito ogni persona di un megafono. Il sistema dei media non è mai stato così, dato che prima poteva partecipare al dibattito pubblico solo un gruppo scelto di persone. Ora, il “conferimento del megafono” non ha certo reso tutti automaticamente dei bravi comunicatori. Estrinsecare l’odio è molto più spesso segno di scarse competenze comunicative che non di reale volontà di essere malvagi. In fondo, l’odio fa parte dei sentimenti naturali dell’essere umano: pensare di poterlo eliminare è secondo me non solo utopico, ma anche pericoloso.
Casomai, l’odio va saputo canalizzare nella maniera corretta, ad esempio senza esibirlo quasi con orgoglio. E il miglior metodo di difesa, a mio avviso, è quello di normalizzare l’odio invece che demonizzarlo. In altre parole, accettare l’imperfezione propria e altrui e prendere l’odio per quello che spesso è: una manifestazione incontrollata dei peggiori istinti umani. Questo risolve moltissimi casi; nei restanti, chiedere aiuto, segnalare alle piattaforme, denunciare agli organi competenti.
Sul lato aziendale, abbiamo visto quanto i social possano demolire un prodotto o addirittura l’azienda stessa. L’ultimo caso, quello dello spot di un cyclette definito “sessista e dispotico” che ha portato il crollo in borsa della compagnia. Immaginiamo che l’intento dello spot non volesse essere tale, ma come dovrebbe agire un’azienda che si trova in una circostanza simile?
Nei molti casi di crisi della comunicazione che ho analizzato nel corso degli ultimi anni si nota una costante: i tentativi di giustificarsi sono sempre stati fallimentari, così come i richiami a possibili fraintendimenti. Ogni volta che l’onere del fallimento è stato “spalmato” sugli altri (che non hanno colto l’ironia, hanno frainteso il messaggio ecc.) la “shitstorm” conseguitane è sempre stata spettacolare.
I casi in cui invece lo scandalo si è ridimensionato velocemente sono quelli in cui l’azienda ha preso atto dell’errore e l’ha ammesso senza nasconderlo, assumendosi la completa responsabilità dell’accaduto, chiedendo scusa senza nessuna attenuante. Quindi, dal mio punto di vista, la strategia migliore è questa: abbiamo sbagliato, siamo dispiaciuti, ci scusiamo (senza aggiungere attenuanti del tipo “ci scusiamo con chi eventualmente si fosse offeso…” perché di fatto implica che quelli che si sono offesi abbiamo loro qualche problema di comprensione). Penso che una delle regole d’oro della comunicazione (istituzionale e non) in rete sia sobbarcarsi il completo onere dei fallimenti comunicativi.
In un’intervista che abbiamo fatto a Paolo Borzacchiello, alla domanda perché le parole siano così importanti, lui ha risposto “perché definiscono le storie che ci raccontiamo e di conseguenza la nostra realtà”. Tu stessa hai detto che la lingua è un atto di identità. Quali suggerimenti ti senti di dare per iniziare prima di tutto a comunicare meglio con se stessi?
Prendere coscienza del fatto che le parole non sono un accessorio della nostra umanità, ma il centro stesso del nostro essere umani. Solo successivamente a questa presa di coscienza ha senso fare tutti gli altri passaggi: educarsi a usarle meglio, aumentare il numero dei termini conosciuti, riflettere un secondo di più rispetto al significato delle parole che ci arrivano e quelle che emettiamo, essere molto pazienti nei confronti degli eventuali errori altrui…
Proprio nel tuo ultimo libro Potere alle parole. Perché usarle meglio, ci inviti a riflettere su come la vera libertà di una persona passi dalla conquista delle parole. La lingua italiana viene studiata fin dalle elementari ed è una costante di ogni percorso di studio. Com’è possibile quindi che ne sappiamo fare un uso così limitato?
Perché l’esercizio “tecnico” all’uso di una lingua rafforza solo una piccola parte della sua conoscenza e non rende l’idea della sua complessità. Conoscere bene la norma e saperla applicare in campo scolastico, “in vitro”, non garantisce che la si sappia usare anche nelle infinite situazioni che possono capitarci ogni giorno, fuori dall’astrazione laboratoriale della scuola. E comunque, non è detto che tutti abbiano competenze limitate. Diciamo che ragionando sui grandi numeri si evince che la maggior parte degli italiani si ferma al livello di cavarsela, alla sufficienza, là dove potrebbe eccellere, con grandi vantaggi per sé.
In un tuo TEDx speech hai invitato le persone a “riprendere il potere della parola giusta”. Come possiamo farlo nel migliore dei modi?
Se il compito, guardato nel suo complesso, sembra insormontabile e fuori dalla nostra portata, possiamo tornare al “micro”, al nostro orticello: partiamo dalla prossima parola che dobbiamo pronunciare, dal prossimo rigo che dobbiamo scrivere. Facciamoci assalire dal dubbio, controlliamo il dizionario, accertiamoci di avere detto esattamente quello che volevamo dire. Io, per me, uso tre parole chiave: dubbio, riflessione, silenzio. Dubbio rispetto a ciò che sento e leggo e alle mie conoscenze. Riflessione rispetto a ciò che dico e scrivo, chiedendomi sempre se sono riuscita a farmi capire e se posso “reggere” ciò che voglio dire e scrivere (sia in termini di forma che di contenuto). Silenzio quando non sono sicura di quello che ho letto o ascoltato o di quello che avrei da dire. Io credo che la combinazione di comunicare quando c’è bisogno della nostra competenza e stare zitti in altri casi, quando non aggiungeremmo altro che rumore di fondo alla discussione, sia il modo più semplice per crearsi una solida reputazione.
Siamo ormai nel 2020, come pensi si evolverà il linguaggio nel prossimo decennio? Cosa ti auguri in merito?
Non ne ho idea. Spero che tutti si rendano conto della bellissima cassetta degli attrezzi con cui sono nati, che è quella delle competenze linguistiche, e che provino il mio stesso entusiasmo a cercarla di riempire con tutti gli utensili possibili. Che poi si sa: ci sarà sempre una brugola che ti serve e che ti manca, ed è così con la competenza linguistica. La si può e la si deve migliorare all’infinito, senza pensare mai di essere arrivati a saperne abbastanza.
Qual è il mantra nella vita di Vera Gheno?
Non ho un vero mantra, se non quello di cercare qualcosa di bello in ogni giorno della mia vita, anche quando le circostanze rendono difficile trovarlo. Recentemente sono rimasta colpita da una frase attribuita a Rita Levi Montalcini, che ho deciso di fare mia: meglio aggiungere vita ai giorni che non giorni alla vita.